Donbass: recensione di Gianni Canova
Donbass
La regia di Sergei Loznitsa
[ISCHIA, 24 GIUGNO 2022] - La macchina da presa penetra in soggettiva in un rifugio antiaereo comunale. Siamo in Ucraina orientale, nel Donbass. Il rifugio è una topaia. Niente luce, niente riscaldamento, niente acqua. I servizi igienici sono intasati di escrementi. Umido, puzza, muffa ovunque. Buio. Uno sfollato accoglie la macchina da presa che in piano sequenza perlustra lo spazio. Chi sta filmando? A chi parla lo sfollato? Non si sa. Conta poco. Conta quel che si vede. Tubi che perdono, liquidi putridi che sgocciolano. Spifferi. Esseri umani febbricitanti intabarrati nel buio, seduti su un giaciglio. Aspettano. Sopravvivono. Attoniti, quasi rassegnati. Nient’altro. “Siamo tornati all’età della pietra…”, dice sconsolato l’uomo che ci ha guidato in questa visita all’inferno. È uno dei 13 frammenti narrativi che compongono Donbass, il film che il regista ucraino Sergei Loznitsa ha girato dopo il 2014/15 e che ha vinto il premio per la miglior regia nella sezione Un certain régard al Festival di Cannes del 2018. Finalmente disponibile anche in Italia su una piattaforma, è un film che tutti dovremmo vedere. Perché ci fa toccare con mano la follia della guerra. Di ogni guerra. Ma anche perché ci ricorda che già qualche anno fa nel Donbass c’era l’inferno, anche se quasi nessuno in Occidente lo voleva vedere. Il film ha la potenza di un quadro di Bruegel nel rappresentare un mondo in cui tutti sono in lotta con tutti e dove davvero l’umanità esibisce il suo lato più spietato e feroce, ma anche – al tempo stesso – quello più stupido e cieco. Nell’autoproclamata repubblica separatista della Novorussia la corruzione dilaga. Mafiosi, affaristi e politicanti si mescolano ai soldati. Ognuno pensa ai propri affarucci, le milizie separatiste tacciano di fascismo chiunque non si allinei, le mine esplodono di continuo lungo le strade dissestate e nei campi innevati. Ma Loznitsa non prende posizione, il suo non è né un film di propaganda né un film a tesi. È uno sguardo sulla guerra che oscilla fra il tragico e il grottesco. Grottesco è ad esempio il primo matrimonio celebrato con il rito della Novorussia, con personaggi sguaiati e sghignazzanti che sembrano usciti da un film di Fellini, e urlano e sbraitano e ridacchiano durante la cerimonia nuziale, a cui partecipano vigili anche gli ufficiali della milizia. Tragico invece è l’episodio del volontario filoucraino legato a un palo in mezzo alla strada ed esposto al linciaggio della folla inferocita che lo picchia, lo insulta e lo umilia, finché una vecchia non gli spappola un pomodoro sul viso in segno di massimo disprezzo. Ma non c’è pietas. Nessuna empatia. Perché i miliziani delle due parti si assomigliano, i checkpoint filorussi e quelli ucraini si confondono, le mine e le bombe esplodono allo stesso modo di qui e di là. E Sergei Loznitsa mette in scena il tutto senza preoccuparsi di chiarire le ragioni delle due parti in conflitto, ma cercando di evidenziare le ricadute della guerra sulla vita delle persone. Ed ecco allora la disgregazione sociale, l’immoralità, i lutti, le esecuzioni, i sequestri di auto e di denaro operati dai separatisti (“per finanziare la guerra al fascismo”, si giustificano!). Tutti sembrano vittime dei propri peggiori istinti. E quello che il film trasmette è una sensazione diffusa e pervasiva di insicurezza, di sospetto, di precarietà, di sconforto. Ma ciò che alla fine più colpisce in Donbass è la riflessione sul rapporto tra finzione e realtà. L’inizio e la fine del film da questo punto di vista sono esemplari: il film si apre su una roulotte dove una ragazza sta truccando alcune comparse per un presunto reportage televisivo e torna nel finale di nuovo lì, per un esito che non possiamo rivelare, ma che mette in discussione lo statuto di verità di ciò che abbiamo visto e vediamo. È cronaca o finzione? Ciò che abbiamo visto nel finale è accaduto davvero o è l’esito di una sceneggiatura? La realtà collassa dentro la finzione, e la prima vittima della guerra è, ancora una volta, la verità.
di Gianni Canova
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