IFA 2018 a Peter Greenaway
[Ischia, 18 giugno 2018] Pittore, regista, scrittore. Ma anche architetto, chef, garden designer, matematico, astronomo e tutto quello che i suoi film hanno raccontato e trasmesso. Insomma, parlare di Peter Greenaway è un po’ come confrontarsi con un Leonardo Da Vinci dell’arte cinematografica, sempre pronto a stupire il mondo con una nuova invenzione. Un vizio che non è mai riuscito, fortunatamente, a perdere, questo artista nato in Galles, ma già dalla più tenera età trapiantato in Inghilterra. Voleva fare il pittore, ma appena uscito dalla scuola d’arte non riuscì a sfuggire al suo destino, quello della pellicola, vivendola prima come montatore e poi come cineasta. Per fortuna non sempre si riescono a seguire i propri desideri, perché spesso le passioni sono molto più potenti. E d’altronde è sempre stato questo il motore del cinema di Peter Greenaway, la passione, spinta fino alle sue estreme conseguenze. Un messaggio chiaro e magnifico sin dal suo primo grande successo internazionale, lo straordinario The Draughtman’s Contract, noto in Italia come I misteri del giardino di Compton House. Opera spiazzante che introduce in tutto e per tutto la poetica di Greenaway, un cinema geometrico e caotico al tempo stesso, ricco ai limiti dell’opulenza per visione, lettura e ascolto. Lo zoo di Venere, il suo film successivo, è un folle triangolo di amore, arte e decomposizione, Il ventre dell’architetto una costruzione fisica e mentale sul processo creativo. Gli anni Ottanta di Greenaway si completano con Giochi dell’acqua e soprattutto Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, un compendio di sensualità, lussuria e arte, Eros e Thanatos nella loro forma più pura, accompagnati da profumi, sapori e colori. Cinema sensoriale, ma anche matematicamente dimostrabile, a un certo punto troppo dirompente per essere ingabbiato in un solo piano di visione. L’ultima Tempesta e I racconti del cuscino sono gli esperimenti primordiali del successivo livello narrativo dell’arte multimediale di Peter Greenaway, quella che teneva gelosamente nascosta nelle valigie di Tulse Luper e che ha portato il giro per tanti mondi.
Senza limiti, se dovessimo dare una definizione al cinema di Greenaway sarebbe questa la più calzante. Semplicemente perché lui non se n’è mai posti, e proprio grazie a questa beata incoscienza è riuscito a creare un immaginario che ha resistito magnificamente nel tempo, anche grazie alla sua straordinaria abilità nel circondarsi di collaboratori il cui livello base era l’eccellenza. Sacha Vierney, il direttore della fotografia che ha dato un’impronta inconfondibile all’atelier Greenaway. E naturalmente Michael Nyman e le sue meravigliose composizioni musicali.
Da tempo Greenaway si diverte, cinematograficamente parlando, a raccontare le vite di grandi artisti, da Rembrandt a Ejsenstein, ricordandoci che di loro, di questi sovversivi personaggi votati al bello e alla conoscenza avremo sempre bisogno. Così come avremo sempre bisogno di un Mr. Greenaway per rendere il mondo molto meno noioso.